La parte offesa, nel caso che ci occupa, era una ragazza che, dimessa da una comunità per tossicodipendenza, aveva deciso dapprima di andare a vivere da sola e poi di convivere con un’altra persona.
Tale scelta non era stata accettata dai genitori, i quali, nonostante la figlia avesse chiaramente dichiarato di non voler più avere rapporti con il padre e la madre, si erano recati presso la pensione in cui lei alloggiava e l’avevano inseguita per strada, offendendola e minacciandola.
I genitori avevano anche promosso giudizio per interdizione, domanda che veniva, però, rigettata.
Il reato configurato è quello previsto dall’art. 660 del Codice Penale che punisce “chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo”.
La condotta necessaria per la configurazione del reato è un comportamento petulante che si intrometta, con arroganza ed invadenza, nella sfera di libertà altrui. Sotto l’aspetto psicologico è sufficiente la consapevolezza del soggetto di arrecare molestia o disturbo, indipendentemente dal fine, anche non biasimevole, del disturbo stesso.
Nel nostro caso i genitori sono stati condannati, dato che, con le loro azioni, anche se dettate da motivazioni comprensibili, hanno posto in essere una serie di comportamenti aventi carattere di petulanza, insistenza e prevaricazione tali da dimostrare una chiara volontà di intromettersi nelle scelte e nella libertà morale della figlia, perfettamente in grado di intendere e di volere.
Ciò che ha particolarmente convinto i Giudici per una sentenza di condanna è stato il forte grado di possessività e di prevaricazione che i genitori, e soprattutto il padre, avevano dimostrato nei confronti della figlia, relegando la stessa a mero oggetto e comprimendo la sua libertà di scelta nell’impostazione della sua vita.